Paola Santoro - Coaching, Facilitazione, Formazione

La mia esperienza di facilitatrice con una partecipante non vedente

Quante volte avete chiuso gli occhi per poter vedere i vostri pensieri?

E quante volte, durante un workshop LEGO® Serious Play®, mi sono ritrovata a dire: “Provate a chiudere gli occhi, mettete le mani sui mattoncini e visualizzate quella volta in cui…”

Talmente tante volte che quando Linda Serra, CEO di Work Wide Women*, mi ha comunicato che ci sarebbe stata una persona non vedente al WWW Lab, con molta serenità le ho detto: “Prenderò giusto qualche accorgimento sugli spazi e sui tempi, ma per il resto non ci sarà alcuna complicazione”.  Le ho risposto di getto senza pensarci neanche un secondo, eppure fino ad allora non avevo mai avuto un partecipante non vedente ai miei workshop. Sono stata presuntuosa, penserete. E invece no, mi sono ciecamente (concedetemi il gioco di parole) affidata alla metodologia LEGO® Serious Play®.

Ma andiamo con ordine. Il 19 maggio Work Wide Women ha organizzato a Bologna il WWW Lab, una piacevole e intensa giornata di confronto professionale e formativo dedicata ad HR manager che si occupano di diversity inclusione. Tra i temi affrontati, la motivazione al cambiamento della sempre ottima trainer e storyteller Francesca Sanzo e la maternità come arricchimento dei team di lavoro, intervento di Stefania Padoa, formatrice e coach, che supporta le lavoratrici e le aziende nel pre e post maternity leave.
E a chiudere i giochi, un gioco serio: LEGO® Serious Play® come strumento di facilitazione per il diversity management. Il racconto della giornata lo trovate qui.

Quando è arrivato il momento del mio workshop, il primo accorgimento che ho avuto è stato quello di allestire la sala affinché il passaggio dal tavolo di gioco al tavolo dei materiali non prevedesse alcun ostacolo. Infine ho sistemato i materiali nelle solite scatole con tutti i mattoncini suddivisi per tipologia.
Su questo ci sono diverse scuole di pensiero.
Io appartengo a quella “maniacale” che prevede piccole scatole a scomparti separati per i pezzi piccoli e medi e altre scatole singole per quelli più grandi. Ritengo che una visualizzazione ordinata e “per tipologia” inneschi una prima relazione tra il mattoncino e il partecipante.
Questo primo contatto non può che avvenire attraverso la vista.

E qui, secondo me, ho commesso il secondo errore (al primo ci arrivo a breve): quando la relazione non può che stabilirsi attraverso il tatto e il tempo a disposizione è poco, non c’è altra soluzione che tuffare le braccia in un mare di mattoncini (anche su più grandi scatole) e far sì che le mani inizino da quel momento a costruire conoscenza selezionando e scartando al primo tocco. In questo modo si riesce a garantire l’accessibilità a tutto il materiale e si livella da subito il campo da gioco.
Il mio solito allestimento, in questo specifico caso, non è stato in grado, a mio avviso, di offrire la giusta accoglienza alla partecipante non vedente.

Naturalmente l’impasse si è verificato solo dopo la fase di warm up che ha visto invece tutti i partecipanti costruire individualmente al tavolo i propri modelli, ciascuno con la propria bustina di LEGO®. Qui ho commesso invece il primo errore, quello sulla gestione dei tempi che sono riuscita a rimediare apportando un taglio (seppur non significativo) al workshop per dare più spazio alla condivisione.

La condivisione è il momento più delicato perché attraverso il racconto del modellino costruito i partecipanti pongono le basi del discorso collettivo innestando le dinamiche dell’ascolto attivo (cosa ben rara nelle riunioni tradizionali!). Di norma a chi racconta chiedo sempre di toccare ogni singolo mattoncino per far sì che le mani, cercando informazioni nella parte razionale, emozionale e istintiva del cervello, possano facilitare l’emergere del racconto.
Mentre enunciavo questa richiesta mi sono resa subito conto che anche l’ascolto della partecipante non vedente doveva necessariamente passare attraverso il tocco del modello. Chi avrebbe dovuto toccare il modellino, chi raccontava o chi poteva ascoltare solo con le mani?

Ancora oggi non sono in grado di dare una risposta definitiva. Ho improvvisato e ho chiesto al narratore di provare a raccontare il suo modello attraverso i pezzi che avrebbe toccato la partecipante non vedente. E così per tutto il giro di tavolo. E la cosa bella è che non è successo niente di nuovo! Tutto è scorso con la solita fluidità, proprio come è sempre accaduto nei miei precedenti workshop.
E ho ripensato alle parole di Picasso, il quale diceva che la pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente.
Chi gioca con LSP non costruisce modelli reali di cose reali, ma costruisce modelli reali di sensazioni, emozioni, idee, relazioni e riflessioni profonde.
E non importa che tu riesca e vedere o no, ciò che importa è che tu possa mettere le mani sui mattoncini!
Lo diceva già il matematico pedagogista Seymour Papert che la conoscenza è un atto di costruzioneSi costruisce attraverso l’apprendimento esperienziale di cui i mattoncini non sono altro che artefatti cognitivi che facilitano lo sviluppo dell’apprendimento e costituiscono le basi di un linguaggio universale che ingaggia tutti i partecipanti al cento per cento.
Le possibili infinite combinazioni tra mattoncini evocano differenti possibilità di trasformazione e assegnazione di significati, in altre parole ci aiutano a “vedere” ciò che non c’è, indipendentemente dalle nostre capacità.
E l’esperienza della protagonista di questa storia lo ha confermato, così ho provato a porle, a posteriori, alcune domande.

Considerata la tua partecipazione al workshop LSP, rispetto ai materiali, che tipo di rapporto si è creato tra te e i mattoncini?

“L’esperienza dei mattoncini per arrivare a costruire un progetto è stata del tutto nuova e originale per me. Li ho da sempre visti come uno strumento ludico, non come materiale di costruzione di idee, concetti. Devo dire che la cosa mi ha stimolato oltre che divertito, tanto che talmente presa dal gioco e dalla discussione per poco perdo il treno. Anche il timore iniziale di cercare di costruire qualcosa non vedendo tutti i pezzi a disposizione si è totalmente dissolto in pochissimo tempo dato che mi sono focalizzata non tanto sulla materialità a disposizione, ma sulle idee, immagini mentali che mi affioravano.”

Rispetto al gruppo di gioco, invece, che tipo di relazione si è creata tra te e gli altri partecipanti durante il workshop?

“Il gioco è stato un’ottima occasione per conoscere e farsi conoscere, abbattendo quelle barriere che una sedia, una posizione composta di ascolto, una frontalità ad una cattedra e proiettore impongono. Nel momento in cui eravamo tutti attorno ad un tavolo a cercare soluzioni si è costituito veramente il gruppo.”

Un buon facilitatore che si occupa di diversity non dovrebbe mai…

“Mai categorizzare, indirizzare le risposte e tanto meno giudicarle. Non ho mai avuto sentore di tutto ciò dal momento che la facilitatrice ha lasciato piena libertà di espressione e movimento, dettando solo come è giusto che sia in quanto variabile fondamentale, i tempi di svolgimento.
Complimenti, mi piacerebbe ripetere l’esperienza in un tempo più dilatato…”

Il tempo scorre inesorabilmente durante un workshop LEGO Serious Play, la noia non trova spazio, il desiderio di giocare incautamente prende il sopravvento, spesso non ci si conosce o ci si conosce male, eppure scatta l’empatia. Tutti i partecipanti, anche quelli più restii e diffidenti, iniziano a  raccontarsi, il facilitatore lentamente arretra e i giocatori diventano il cuore pulsante di un processo di costruzione in cui il tutto sarà sempre superiore alla somma delle parti.

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